Da vedere a Monghidoro
Chiesa Sant'Andrea Valle di Savena
Citata in un documento del 1315, fu rifatta nell’800 interamente a sasso a vista. Seppur ben poco abbia conservato dell’edificio originario (è stato invertito lo stesso orientamento della costruzione) è comunque una delle chiese più caratteristiche del territorio, meta frequente di gruppi religiosi.
Citata in un documento del 1315, fu rifatta nell’800 interamente a sasso a vista. Seppur ben poco abbia conservato dell’edificio originario (è stato invertito lo stesso orientamento della costruzione) è comunque una delle chiese più caratteristiche del territorio, meta frequente di gruppi religiosi.
Chiesa di Santa Maria Assunta
Edificata nel 1951 su progetto dell’architetto Vignali, è stata affiancata dalla costruzione del campanile nel 1991. La torre campanaria ha una base ottagonale ed è stata realizzata, così come la chiesa, in sasso a vista utilizzando esclusivamente pietra arenaria locale. All’interno la mostra d’Arte Sacra nella Sala Don Bosco, un quadro raffigurante La Vergine immacolata e i santi Petroni e Dionigi l’Aeropagita, olio su tela, dipinto dal Burrini (Giovanni Antonio Burrini, Bologna 1656-1727) nel 1685; è del pari presente una Madonna in trono col Bambino, olio su rame, dipinta da Iacopo Alessandro Calvi (Bologna 1740-1815) che si ritiene fosse presente nella vecchia chiesa demolita dopo la II guerra mondiale.
Edificata nel 1951 su progetto dell’architetto Vignali, è stata affiancata dalla costruzione del campanile nel 1991. La torre campanaria ha una base ottagonale ed è stata realizzata, così come la chiesa, in sasso a vista utilizzando esclusivamente pietra arenaria locale. All’interno la mostra d’Arte Sacra nella Sala Don Bosco, un quadro raffigurante La Vergine immacolata e i santi Petroni e Dionigi l’Aeropagita, olio su tela, dipinto dal Burrini (Giovanni Antonio Burrini, Bologna 1656-1727) nel 1685; è del pari presente una Madonna in trono col Bambino, olio su rame, dipinta da Iacopo Alessandro Calvi (Bologna 1740-1815) che si ritiene fosse presente nella vecchia chiesa demolita dopo la II guerra mondiale.
Chiesa Campeggio
Già citata nell’elenco delle chiese del ‘300, ha come patrono S. Prospero. L’attuale edificio fu completamente ristrutturato nel 1884-1888, mentre il campanile risale alla fine del XVIII secolo; all’interno e all’esterno sono presenti delle statue di N. De’ Carli. All’interno la riproduzione della grotta di Lourdes voluta da Don Augusto Bonafè nel 1923. Il terremoto che colpì con particolare violenza il territorio di Monghidoro nel 2003 non risparmiò la chiesa di Campeggio: grazie ad un attento intervento di recupero e di messa in sicurezza oggi la chiesa, con la sua armonica facciata che si apre sull’alta valle dell’Idice, è tornata ad essere un nodo della vita spirituale della montagna.
Già citata nell’elenco delle chiese del ‘300, ha come patrono S. Prospero. L’attuale edificio fu completamente ristrutturato nel 1884-1888, mentre il campanile risale alla fine del XVIII secolo; all’interno e all’esterno sono presenti delle statue di N. De’ Carli. All’interno la riproduzione della grotta di Lourdes voluta da Don Augusto Bonafè nel 1923. Il terremoto che colpì con particolare violenza il territorio di Monghidoro nel 2003 non risparmiò la chiesa di Campeggio: grazie ad un attento intervento di recupero e di messa in sicurezza oggi la chiesa, con la sua armonica facciata che si apre sull’alta valle dell’Idice, è tornata ad essere un nodo della vita spirituale della montagna.
Chiesa Fradusto
Dedicata a San Procolo, la chiesa – di cui abbiamo menzione fin dal 1300 – fu completamente rifatta nel 1905 e restaurata nel 1954 dopo i danni subiti nel corso della II guerra mondiale.
Dedicata a San Procolo, la chiesa – di cui abbiamo menzione fin dal 1300 – fu completamente rifatta nel 1905 e restaurata nel 1954 dopo i danni subiti nel corso della II guerra mondiale.
Chiesa Lognola
Le prime notizie di un edificio ecclesiastico a Lognola risalgono al ‘300. Fu ristrutturato a più riprese nel 1687, nel 1733, nel 1845 e in ultimo nel 2007. Attualmente, salvo alcuni arredi, resta ben poco dell’antica chiesa parrocchiale: tra essi si segnala un Cristo deposto tra la Madonna, Maria Maddalena e Nicodemo, bassorilievo in arenaria policroma risalente al XVI secolo (si noti che l’opera è custodita nel Museo Parrocchiale di Monghidoro).
Le prime notizie di un edificio ecclesiastico a Lognola risalgono al ‘300. Fu ristrutturato a più riprese nel 1687, nel 1733, nel 1845 e in ultimo nel 2007. Attualmente, salvo alcuni arredi, resta ben poco dell’antica chiesa parrocchiale: tra essi si segnala un Cristo deposto tra la Madonna, Maria Maddalena e Nicodemo, bassorilievo in arenaria policroma risalente al XVI secolo (si noti che l’opera è custodita nel Museo Parrocchiale di Monghidoro).
Santuario della Madonna dei Boschi
Edificato nel 1685 dai fratelli Giovanni e Simone Prosperi. All’interno tra le molte opere si notano in particolar modo l’immagine della Madonna di S. Luca (ritenuta miracolosa) e due statue raffiguranti i santi Pietro e Paolo scolpite nel 1785 dall’artista bolognese Antonio Gambarini (seconda metà del sec. XVIII-1787); l’organo della chiesa, rimesso in funzione nel 2002 da Gastone Mezzaroba grazie ai finanziamenti pervenuti dall’Amministrazione Comunale, dalla parrocchia di San Prospero e dalla Fondazione Carisbo, esalta con la sua ricca sonorità l’acustica mirabile del caratteristico Santuario, posto in posizione dominante sul crinale.
Edificato nel 1685 dai fratelli Giovanni e Simone Prosperi. All’interno tra le molte opere si notano in particolar modo l’immagine della Madonna di S. Luca (ritenuta miracolosa) e due statue raffiguranti i santi Pietro e Paolo scolpite nel 1785 dall’artista bolognese Antonio Gambarini (seconda metà del sec. XVIII-1787); l’organo della chiesa, rimesso in funzione nel 2002 da Gastone Mezzaroba grazie ai finanziamenti pervenuti dall’Amministrazione Comunale, dalla parrocchia di San Prospero e dalla Fondazione Carisbo, esalta con la sua ricca sonorità l’acustica mirabile del caratteristico Santuario, posto in posizione dominante sul crinale.
Santuario di Piamaggio
Edificato nel 1893 per volontà di mons. Giuseppe Frati che vi fece porre un’immagine raffigurante la Madonna di Pompei. Fu dichiarato santuario nel 1901 ed eretto a parrocchia nel 1956, con doppio titolo di S. Lorenzo e B. V. di Pompei. All’interno, una tela del pittore Sante Nucci (1821-1896) raffigurante la Vergine del Rosario.
Edificato nel 1893 per volontà di mons. Giuseppe Frati che vi fece porre un’immagine raffigurante la Madonna di Pompei. Fu dichiarato santuario nel 1901 ed eretto a parrocchia nel 1956, con doppio titolo di S. Lorenzo e B. V. di Pompei. All’interno, una tela del pittore Sante Nucci (1821-1896) raffigurante la Vergine del Rosario.
Chiesa di Valgattara
Dedicata a San Bartolomeo sorge con ogni probabilità in prossimità delle rovine dell’antico castello di Valgattara, ricordato dal 1297. Nel 1688 la chiesa, in pessime condizioni, fu restaurata: in quell’occasione le opere contenute all’interno sono state disperse.
Dedicata a San Bartolomeo sorge con ogni probabilità in prossimità delle rovine dell’antico castello di Valgattara, ricordato dal 1297. Nel 1688 la chiesa, in pessime condizioni, fu restaurata: in quell’occasione le opere contenute all’interno sono state disperse.
Chiesa di Vergiano
La chiesa dedicata a Sant’Alessandro papa secondo la tradizione è stata fondata sulle rovine dell’antica Rocca di Vergiano. Le prime notizie di una struttura dedicata al culto risalgono al 1300, il campanile della chiesa custodiva fino al XIX secolo tre campane antiche: una di queste era stata fusa nel 1382 dal maestro Rolando.
La chiesa dedicata a Sant’Alessandro papa secondo la tradizione è stata fondata sulle rovine dell’antica Rocca di Vergiano. Le prime notizie di una struttura dedicata al culto risalgono al 1300, il campanile della chiesa custodiva fino al XIX secolo tre campane antiche: una di queste era stata fusa nel 1382 dal maestro Rolando.
Chiostro de La Cisterna
Vestigia dell’antico monastero di S. Michele ad Alpes, edificato a partire dal 1528 per volontà di Armaciotto De’ Ramazzotti. Il monastero, costato 8000 ducati d’oro, venne donato all’ordine monastico dei Benedettini Olivetani che lo gestirono fino al 1797. E’ stato recentemente in parte recuperato.
Vestigia dell’antico monastero di S. Michele ad Alpes, edificato a partire dal 1528 per volontà di Armaciotto De’ Ramazzotti. Il monastero, costato 8000 ducati d’oro, venne donato all’ordine monastico dei Benedettini Olivetani che lo gestirono fino al 1797. E’ stato recentemente in parte recuperato.
Dogana di Filigare
Nei pressi delle Filigare è presente l’originaria dogana tra lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana. L’amministrazione comunale ha ricostruito i pilastrini che segnavano il limite dell’antica frontiera da cui prende il nome la nostra struttura ricettiva.
Nei pressi delle Filigare è presente l’originaria dogana tra lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana. L’amministrazione comunale ha ricostruito i pilastrini che segnavano il limite dell’antica frontiera da cui prende il nome la nostra struttura ricettiva.
Borghi Storici
Nuclei tipologici di abitazioni rurali, costruiti in arenaria estratta dalle cave locali e lavorata sul posto. Segni di una civiltà contadina ormai scomparsa, esempi caratteristici di architettura spontanea montana. Un dato su cui si invita a riflettere è che l’attuale territorio di Monghidoro era composto da ben quattro parrocchie, con una parcellizzazione dell’insediamento che risulta non indifferente. La tipologia degli abitati è varia, ma in essi si avverte sempre questa attenzione antica alla cura del territorio. Nella valle dell’Idice (l’Idex Flumen di Romana memoria) si segnalano il Borgo di Campeggio (diviso a sua volta in varie borgate, Pergoloso, Vincareto ed altre), Frassineta e Pallerano oltre a Gragnano ed Ampugnola. Altri nella valle del Savena.
Nuclei tipologici di abitazioni rurali, costruiti in arenaria estratta dalle cave locali e lavorata sul posto. Segni di una civiltà contadina ormai scomparsa, esempi caratteristici di architettura spontanea montana. Un dato su cui si invita a riflettere è che l’attuale territorio di Monghidoro era composto da ben quattro parrocchie, con una parcellizzazione dell’insediamento che risulta non indifferente. La tipologia degli abitati è varia, ma in essi si avverte sempre questa attenzione antica alla cura del territorio. Nella valle dell’Idice (l’Idex Flumen di Romana memoria) si segnalano il Borgo di Campeggio (diviso a sua volta in varie borgate, Pergoloso, Vincareto ed altre), Frassineta e Pallerano oltre a Gragnano ed Ampugnola. Altri nella valle del Savena.
Mulini ad acqua
Di mulini, lungo il corso del Savena e dell’Idice, ce n’erano in abbondanza. La loro dislocazione è, ovviamente, in funzione della disponibilità più costante possibile di acqua, considerato che il regime idrico sia del Savena che dell’Idice è decisamente a carattere torrentizio ed è da mettere in relazione all’alimentazione pluviale del rilievo, più abbondante in autunno e in primavera, con conseguenti piene repentine ed impetuose. L’elevato numero di torrenti laterali rispetto alle aste del Savena e dell’Idice permette infatti una captazione notevole delle acque pluviali, che vengono quindi convogliate copiosamente verso i fondovalle principali. Un elemento di relativa stabilità nel rifornimento idrico dei mulini era costituito dalle numerose sorgenti perenni che, prima della loro captazione per l’immissione negli acquedotti, defluivano liberamente alimentando gli invasi anche durante i periodi più aridi. Ecco in sintesi la struttura dell’opificio. Deviata tramite uno sbarramento sul torrente, l’acqua necessaria al funzionamento del mulino viene incanalata e raccolta in un invaso detto “botte”. Lungo talvolta anche diverse centinaia di metri, il canale è scavato nel terreno o ricavato con sponde in muratura e presenta pendenza limitata (1-2%) con conseguente scarsa velocità dell’acqua – circa un metro al secondo – tale da non erodere il terreno, ma, anzi, da consentire la sedimentazione del fango e della sabbia in sospensione. La botte, delimitata da pareti in muratura o da argini in terra ed avente il fondo inclinato verso il mulino, costituisce una riserva d’acqua che consente, grazie al continuo apporto del canale, di mantenere costante il dislivello fra il pelo dell’acqua e la ruota idraulica e, quindi, una potenza di macinazione pure costante. Spesso un lato della botte è costituito da un muro comunicante con il locale che ospita le ruote a catini – detto appunto “catinaia” – ed allora nel muro stesso si aprono cunicoli a volta, chiamati “trombe”, in numero uguale a quello delle macine, che si restringono dall’esterno verso l’interno terminando con una bocca in legno munita all’estremità di saracinesca. Quando i mulini sono costruiti in posizioni molto scoscese e su piani diversi degradanti verso il torrente nella botte si apre un’unica tromba e l’acqua che passa fa girare una dopo l’altra le diverse macine poste in successione. Tutti i mulini esistenti nel comune di Monghidoro sono forniti di ruota idraulica orizzontale, che si adatta ad una portata d’acqua limitata. Essa è costituita da un rullo di legno di quercia rastremantesi verso l’alto, che porta al piede, riuniti a raggiera, una dozzina di “catini”, mentre nella parte superiore è innestata la sbarra di trasmissione e nell’estremità inferiore è fissato un perno in acciaio che, inserito nell’apposita sede ricavata in un parallelepipedo di bronzo, detto appunto “bronzina”, permette a tutto il complesso di ruotare con un minimo di attrito. La “bronzina” è a sua volta incastrata in un parallelepipedo di quercia alloggiato in un incavo del basamento che regge tutto il motore idraulico ed è costituito da una trave detta “banchina” incernierata ad una estremità alla struttura dell’edificio e collegata al capo opposto ad un’asta di metallo che, attraverso un foro nel pavimento, raggiunge il locale macine. La parte terminale è filettata e porta un grosso bullone che poggia su di una pietra fissa, cosicché avvitando o svitando si procura rispettivamente l’innalzamento o l’abbassamento della “banchina” e, con essa, del rullo e della sovrastante macina. Infatti la sbarra di trasmissione infissa nel rullo di legno attraversa la macina inferiore, quella fissa o “dormiente”, tramite un foro centrale protetto da un cilindro di salice o di bosso fissato a mo’ di cuscinetto, e sporge per circa 10 cm portando sull’estremità l’impostazione atta ad accogliere una piastra di ferro sagomata a farfalla, chiamata “merla”, che regge la macina superiore, o “girante”, dotata di apposito incavo per l’alloggiamento della “merla” stessa. Il movimento rotatorio al motore idraulico viene impresso dall’acqua allorché, aprendo dal locale macine tramite una leva la saracinesca della tromba, si libera il flusso in pressione che va ad urtare contro i catini. Ovviamente il parallelismo fra le due superfici delle macine deve essere perfetto. L’equilibratura si ottiene riportando il palo in esatta perpendicolarità col piano di macinazione della parte fissa, con l’ausilio di un’asta di legno detta “randa” lunga quanto il raggio della macina e munita all’estremità di una punta metallica. Inserita al posto della merla, quando la ruota idraulica viene azionata manualmente la randa evidenzia l’eventuale difetto sfregando la macina per un certo tratto e restando sollevata nell’arco opposto. Occorre ora agire sulla porta bronzina spostandolo lievemente tramite i cunei che lo fissano alla banchina. Fra le operazioni di manutenzione riveste pure notevole importanza la “battitura” delle macine, che consente di ripristinare l’assetto ottimale delle superfici molitorie caratterizzate da scanalature a sezione triangolare e da sottili rigature aventi funzione di diminuire la superficie di attrito e favorire la circolazione dell’aria, impedendo il riscaldamento della farina. La concentrazione maggiore di mulini nel comune di Monghidoro si ha sul Rio del Piattello, che prende origine da varie sorgenti a circa quota 1000, a monte dell’abitato di Ca’ di Guglielmo, e sfocia sulla destra del Savena poco a sud del Mulino della Valle, dopo aver conformato una stretta valle che delimita un altopiano triangolare di altezza media sugli 800 metri, avente come limite occidentale il corso del Savena e meridionale i contrafforti montuosi al confine con la Toscana. Sul Rio, al di sopra della strada provinciale che passa per Piamaggio e porta a Castel dell’Alpi, si trova una serie singolare di quattro mulini in successione a pochi metri di distanza l’uno dall’altro in località Ca’ di Guglielmo, tutti compresi in un’altezza variante dagli 860 agli 826 metri sul livello del mare. Quello più alto, detto Mulino di Ca’ di Guglielmo di Sopra, è costituito da una costruzione di pendio articolata su diversi piani, con portico antistante il mulino, e reca un’incisione su un architrave datata metà del Settecento. L’ampia botte, alimentata soprattutto da acqua sorgiva, fu rifatta dai Naldi, che entrarono in possesso del mulino nel 1910, e presenta un muro di sbarramento spesso oltre tre metri alla base e munito di ampia apertura per il rapido svuotamento in caso di emergenza. Le due macine di cui era fornito consentivano la macinazione dei vari prodotti che il mugnaio andava a ritirare di casa in casa – come era costume nella zona – con l’aiuto del somaro, con l’impegno di portare la farina, una volta dedotta la “molenda”, cioè la porzione di prodotto trattenuta come pagamento per il lavoro svolto, al posto del denaro di cui c’era scarsa disponibilità. I tre mulini inferiori sono detti di Ca’ di Guglielmo di Sotto e sono di proprietà della famiglia Tedeschi che ha antiche origini nel luogo. Il primo è costituito da una costruzione unitaria sulla sponda sinistra del rio, alla quale si accede per una ripida carreggiata acciottolata. Utilizzava l’acqua che aveva servito il mulino superiore e che veniva convogliata nell’ampia botte munita di due trombe corrispondenti alle due macine alloggiate, utilizzate per frumentone, prodotti per il bestiame e, soprattutto, castagne. Erano infatti numerosi i seccatoi a Ca’ di Guglielmo e spesso lavoravano le castagne anche per conto terzi, dall’essicazione alla produzione della farina. Il terzo mulino presenta una modesta costruzione sempre sulla sinistra del rio a circa 50 metri dalla superiore. Era alimentato da un breve canale che riempiva una piccola botte ricoperta con travi e terra, unico esempio di botte coperta incontrato nei mulini del Savena. Questo, come pure il mulino a valle, alloggiano una sola macina e sono comunque interessanti per le caratteristiche, minuscole costruzioni tutte in arenaria, che ben si sposano con l’ambiente. Più in basso, a 654 slm, si trova il Mulino Mazzone posto alla destra del Rio del Piattello, quasi in confluenza con il Rio Costazza. Per complessità del fabbricato, la varietà delle macine alloggiate, l’amenità della posizione geografica e per il fatto che è ancora oggi funzionante, questo mulino può essere considerato il più interessante del Comune di Monghidoro. Antecedente il 1785, in quanto riportato nel Catasto Boncompagni con il toponimo pressoché identico all’attuale “Molino de’ Mazzoni”, il complesso è composto da abitazione, stalla, locali distinti per ciascuna macina e un ampio portico antistante l’ingresso, costruito nel 1878, come attesta la data incisa sull’architrave. Oltre alle quattro macine alloggiate nel complesso stesso ne esiste una quinta posta in una minuscola costruzione, un centinaio di metri a valle, sulla sponda sinistra detta “mulinlin”, dove venivano macinate le biade. Essendo ancora in grado di funzionare, questo mulino presenta tutti gli elementi caratteristici degli opifici della specie. A cominciare dallo sbarramento in sassi sul Rio del Piattello per deviare l’acqua nel canale di adduzione, munito di sfioratoio e paratoia chiamata localmente “fiaccacollo”. Un altro canale convoglia le acque del Rio Costazza per aumentare la disponibilità idrica. Poi una bella botte, ricoperta da una spessa lastra di ghiaccio in inverno, solcata da impettite anatre e oche nelle altre stagioni, circondata da una siepe. E all’interno, ricoperti da un diffuso velo bianco, la tramoggia sospesa ad un binario di legno ancorato al soffitto, in modo da poter essere spostata lateralmente quando deve essere sollevata la macina per la manutenzione. La gru in legno, costituita da un braccio mobile avente all’estremità un foro attraverso il quale passa una vite munita, dalla parte superiore, di un grosso dado con bracci o volantino che ne consentono un’agevole rotazione e, dall’altra parte, di due robusti cerchi metallici terminanti con due fori che vengono fatti combaciare con i due appositamente ricavati, in posizione diametralmente opposta, nelle macine giranti dentro i quali vengono inseriti due pioli di metallo che sorreggono la macina quando viene avvitato il dado e consentono il ribaltamento della macina stessa per la battitura. Inoltre i vagli, fra cui quello da grano fatto di pelle di cavallo, i bigonci e le palozze di legno, la bascula per pesare i sacchi e calcolare la molenda e, applicato all’architrave, un sonaglio da mulo quale efficace antifurto, che ha lasciato il segno dell’utilizzo secolare del mulino nel solco incavato nel bordo della porta ove batte ad ogni apertura e chiusura della stessa. Condotto nel 1785 da Lorenzini Giacomo e Michele e nel 1815 dal figlio Stefano, nel 1872 il mulino era tenuto da Galli Domenico fu Francesco, nel 1906 da Fabbri Alfredo di Domenico ed infine da Galli Antonio (l’ultimo mugnaio a tempo pieno), mentre la proprietà attualmente è dei Sazzini di Piamaggio.
Di mulini, lungo il corso del Savena e dell’Idice, ce n’erano in abbondanza. La loro dislocazione è, ovviamente, in funzione della disponibilità più costante possibile di acqua, considerato che il regime idrico sia del Savena che dell’Idice è decisamente a carattere torrentizio ed è da mettere in relazione all’alimentazione pluviale del rilievo, più abbondante in autunno e in primavera, con conseguenti piene repentine ed impetuose. L’elevato numero di torrenti laterali rispetto alle aste del Savena e dell’Idice permette infatti una captazione notevole delle acque pluviali, che vengono quindi convogliate copiosamente verso i fondovalle principali. Un elemento di relativa stabilità nel rifornimento idrico dei mulini era costituito dalle numerose sorgenti perenni che, prima della loro captazione per l’immissione negli acquedotti, defluivano liberamente alimentando gli invasi anche durante i periodi più aridi. Ecco in sintesi la struttura dell’opificio. Deviata tramite uno sbarramento sul torrente, l’acqua necessaria al funzionamento del mulino viene incanalata e raccolta in un invaso detto “botte”. Lungo talvolta anche diverse centinaia di metri, il canale è scavato nel terreno o ricavato con sponde in muratura e presenta pendenza limitata (1-2%) con conseguente scarsa velocità dell’acqua – circa un metro al secondo – tale da non erodere il terreno, ma, anzi, da consentire la sedimentazione del fango e della sabbia in sospensione. La botte, delimitata da pareti in muratura o da argini in terra ed avente il fondo inclinato verso il mulino, costituisce una riserva d’acqua che consente, grazie al continuo apporto del canale, di mantenere costante il dislivello fra il pelo dell’acqua e la ruota idraulica e, quindi, una potenza di macinazione pure costante. Spesso un lato della botte è costituito da un muro comunicante con il locale che ospita le ruote a catini – detto appunto “catinaia” – ed allora nel muro stesso si aprono cunicoli a volta, chiamati “trombe”, in numero uguale a quello delle macine, che si restringono dall’esterno verso l’interno terminando con una bocca in legno munita all’estremità di saracinesca. Quando i mulini sono costruiti in posizioni molto scoscese e su piani diversi degradanti verso il torrente nella botte si apre un’unica tromba e l’acqua che passa fa girare una dopo l’altra le diverse macine poste in successione. Tutti i mulini esistenti nel comune di Monghidoro sono forniti di ruota idraulica orizzontale, che si adatta ad una portata d’acqua limitata. Essa è costituita da un rullo di legno di quercia rastremantesi verso l’alto, che porta al piede, riuniti a raggiera, una dozzina di “catini”, mentre nella parte superiore è innestata la sbarra di trasmissione e nell’estremità inferiore è fissato un perno in acciaio che, inserito nell’apposita sede ricavata in un parallelepipedo di bronzo, detto appunto “bronzina”, permette a tutto il complesso di ruotare con un minimo di attrito. La “bronzina” è a sua volta incastrata in un parallelepipedo di quercia alloggiato in un incavo del basamento che regge tutto il motore idraulico ed è costituito da una trave detta “banchina” incernierata ad una estremità alla struttura dell’edificio e collegata al capo opposto ad un’asta di metallo che, attraverso un foro nel pavimento, raggiunge il locale macine. La parte terminale è filettata e porta un grosso bullone che poggia su di una pietra fissa, cosicché avvitando o svitando si procura rispettivamente l’innalzamento o l’abbassamento della “banchina” e, con essa, del rullo e della sovrastante macina. Infatti la sbarra di trasmissione infissa nel rullo di legno attraversa la macina inferiore, quella fissa o “dormiente”, tramite un foro centrale protetto da un cilindro di salice o di bosso fissato a mo’ di cuscinetto, e sporge per circa 10 cm portando sull’estremità l’impostazione atta ad accogliere una piastra di ferro sagomata a farfalla, chiamata “merla”, che regge la macina superiore, o “girante”, dotata di apposito incavo per l’alloggiamento della “merla” stessa. Il movimento rotatorio al motore idraulico viene impresso dall’acqua allorché, aprendo dal locale macine tramite una leva la saracinesca della tromba, si libera il flusso in pressione che va ad urtare contro i catini. Ovviamente il parallelismo fra le due superfici delle macine deve essere perfetto. L’equilibratura si ottiene riportando il palo in esatta perpendicolarità col piano di macinazione della parte fissa, con l’ausilio di un’asta di legno detta “randa” lunga quanto il raggio della macina e munita all’estremità di una punta metallica. Inserita al posto della merla, quando la ruota idraulica viene azionata manualmente la randa evidenzia l’eventuale difetto sfregando la macina per un certo tratto e restando sollevata nell’arco opposto. Occorre ora agire sulla porta bronzina spostandolo lievemente tramite i cunei che lo fissano alla banchina. Fra le operazioni di manutenzione riveste pure notevole importanza la “battitura” delle macine, che consente di ripristinare l’assetto ottimale delle superfici molitorie caratterizzate da scanalature a sezione triangolare e da sottili rigature aventi funzione di diminuire la superficie di attrito e favorire la circolazione dell’aria, impedendo il riscaldamento della farina. La concentrazione maggiore di mulini nel comune di Monghidoro si ha sul Rio del Piattello, che prende origine da varie sorgenti a circa quota 1000, a monte dell’abitato di Ca’ di Guglielmo, e sfocia sulla destra del Savena poco a sud del Mulino della Valle, dopo aver conformato una stretta valle che delimita un altopiano triangolare di altezza media sugli 800 metri, avente come limite occidentale il corso del Savena e meridionale i contrafforti montuosi al confine con la Toscana. Sul Rio, al di sopra della strada provinciale che passa per Piamaggio e porta a Castel dell’Alpi, si trova una serie singolare di quattro mulini in successione a pochi metri di distanza l’uno dall’altro in località Ca’ di Guglielmo, tutti compresi in un’altezza variante dagli 860 agli 826 metri sul livello del mare. Quello più alto, detto Mulino di Ca’ di Guglielmo di Sopra, è costituito da una costruzione di pendio articolata su diversi piani, con portico antistante il mulino, e reca un’incisione su un architrave datata metà del Settecento. L’ampia botte, alimentata soprattutto da acqua sorgiva, fu rifatta dai Naldi, che entrarono in possesso del mulino nel 1910, e presenta un muro di sbarramento spesso oltre tre metri alla base e munito di ampia apertura per il rapido svuotamento in caso di emergenza. Le due macine di cui era fornito consentivano la macinazione dei vari prodotti che il mugnaio andava a ritirare di casa in casa – come era costume nella zona – con l’aiuto del somaro, con l’impegno di portare la farina, una volta dedotta la “molenda”, cioè la porzione di prodotto trattenuta come pagamento per il lavoro svolto, al posto del denaro di cui c’era scarsa disponibilità. I tre mulini inferiori sono detti di Ca’ di Guglielmo di Sotto e sono di proprietà della famiglia Tedeschi che ha antiche origini nel luogo. Il primo è costituito da una costruzione unitaria sulla sponda sinistra del rio, alla quale si accede per una ripida carreggiata acciottolata. Utilizzava l’acqua che aveva servito il mulino superiore e che veniva convogliata nell’ampia botte munita di due trombe corrispondenti alle due macine alloggiate, utilizzate per frumentone, prodotti per il bestiame e, soprattutto, castagne. Erano infatti numerosi i seccatoi a Ca’ di Guglielmo e spesso lavoravano le castagne anche per conto terzi, dall’essicazione alla produzione della farina. Il terzo mulino presenta una modesta costruzione sempre sulla sinistra del rio a circa 50 metri dalla superiore. Era alimentato da un breve canale che riempiva una piccola botte ricoperta con travi e terra, unico esempio di botte coperta incontrato nei mulini del Savena. Questo, come pure il mulino a valle, alloggiano una sola macina e sono comunque interessanti per le caratteristiche, minuscole costruzioni tutte in arenaria, che ben si sposano con l’ambiente. Più in basso, a 654 slm, si trova il Mulino Mazzone posto alla destra del Rio del Piattello, quasi in confluenza con il Rio Costazza. Per complessità del fabbricato, la varietà delle macine alloggiate, l’amenità della posizione geografica e per il fatto che è ancora oggi funzionante, questo mulino può essere considerato il più interessante del Comune di Monghidoro. Antecedente il 1785, in quanto riportato nel Catasto Boncompagni con il toponimo pressoché identico all’attuale “Molino de’ Mazzoni”, il complesso è composto da abitazione, stalla, locali distinti per ciascuna macina e un ampio portico antistante l’ingresso, costruito nel 1878, come attesta la data incisa sull’architrave. Oltre alle quattro macine alloggiate nel complesso stesso ne esiste una quinta posta in una minuscola costruzione, un centinaio di metri a valle, sulla sponda sinistra detta “mulinlin”, dove venivano macinate le biade. Essendo ancora in grado di funzionare, questo mulino presenta tutti gli elementi caratteristici degli opifici della specie. A cominciare dallo sbarramento in sassi sul Rio del Piattello per deviare l’acqua nel canale di adduzione, munito di sfioratoio e paratoia chiamata localmente “fiaccacollo”. Un altro canale convoglia le acque del Rio Costazza per aumentare la disponibilità idrica. Poi una bella botte, ricoperta da una spessa lastra di ghiaccio in inverno, solcata da impettite anatre e oche nelle altre stagioni, circondata da una siepe. E all’interno, ricoperti da un diffuso velo bianco, la tramoggia sospesa ad un binario di legno ancorato al soffitto, in modo da poter essere spostata lateralmente quando deve essere sollevata la macina per la manutenzione. La gru in legno, costituita da un braccio mobile avente all’estremità un foro attraverso il quale passa una vite munita, dalla parte superiore, di un grosso dado con bracci o volantino che ne consentono un’agevole rotazione e, dall’altra parte, di due robusti cerchi metallici terminanti con due fori che vengono fatti combaciare con i due appositamente ricavati, in posizione diametralmente opposta, nelle macine giranti dentro i quali vengono inseriti due pioli di metallo che sorreggono la macina quando viene avvitato il dado e consentono il ribaltamento della macina stessa per la battitura. Inoltre i vagli, fra cui quello da grano fatto di pelle di cavallo, i bigonci e le palozze di legno, la bascula per pesare i sacchi e calcolare la molenda e, applicato all’architrave, un sonaglio da mulo quale efficace antifurto, che ha lasciato il segno dell’utilizzo secolare del mulino nel solco incavato nel bordo della porta ove batte ad ogni apertura e chiusura della stessa. Condotto nel 1785 da Lorenzini Giacomo e Michele e nel 1815 dal figlio Stefano, nel 1872 il mulino era tenuto da Galli Domenico fu Francesco, nel 1906 da Fabbri Alfredo di Domenico ed infine da Galli Antonio (l’ultimo mugnaio a tempo pieno), mentre la proprietà attualmente è dei Sazzini di Piamaggio.
Musei di Piamaggio
Museo della civiltà contadina e Piccolo Museo dell'emigrante - Centro di documentazione
Il museo della Civiltà Contadina dell’Appennino si trova in località Piamaggio, a soli 3 km da Monghidoro percorrendo la strada della Futa e vicinissimo alla nostra struttura ricettiva (dopo Ca’ del Costa voltare a destra sulla provinciale per Castel dell’Alpi). Il museo è stato concepito in base agli spazi e agli oggetti a disposizione e con un criterio che coinvolga il visitatore in quella che era la vita rurale di un tempo, con i suoi luoghi di soggiorno e di attività lavorativa. Vi si possono ammirare diverse ambientazioni.
La cucina con il suo camino indispensabile per riscaldare l’ambiente e per cucinare i cibi. Il locale si trova generalmente al piano terreno e, così come nella ricostruzione, presenta la pavimentazione in lastre di arenaria tipica del luogo. Su di un lato si trova il lavello in sasso con l’immancabile secchio dell’acqua. In una madia venivano poi conservate le terraglie (piatti, terrine, bicchieri, posate, ecc.) mentre tegami, scoli, coltelli ed altri arnesi da cucina venivano appesi per essere più a portata di mano. Ogni mensola o ripiano era utilizzato per riporre gli oggetti di uso più comune. Una tavola, alcune sedie ed un attaccapanni completavano il misero arredo.
La camera da letto generalmente situata al piano superiore aveva una pavimentazione in legno con vistose fessure che favorivano il passaggio del calore proveniente dalla cucina sottostante. Il letto era costituito da due cavalletti di legno dove poggiavano alcune assi che sostenevano un materasso ripieno di foglie di mais (e paion). Per riscaldarlo si usavano le braci riposte in un apposito contenitore detto “suora”, che veniva collocato all’interno del “prete” (adeguato sostegno che teneva sollevate le lenzuola che altrimenti avrebbero potuto prendere fuoco). In un angolo era collocato il lavabo e in una cassa venivano riposti la biancheria ed i pochi indumenti di lana. Data l’alta natalità nella camera trovava spesso collocazione anche la culla per il neonato.
La stalla, con annesso portico per il ricovero degli attrezzi, è stata ricostruita fedelmente seppur in forma ridotta e rappresenta il cuore del Museo. L’ambiente odora di fieno e la mancanza degli animali, unico ausilio al faticoso lavoro nei campi, sembra quasi una casualità, anche se si possono ascoltare i loro versi. Tutto quanto esposto riconduce a quella che era l’attività preminente e che non sempre riusciva a soddisfare le necessità del nucleo famigliare e dei pochi capi di bestiame. Gli attrezzi per la lavorazione della terra e del grano si mescolano con quelli utili alla raccolta ed al trasporto del foraggio.
La scuola. E’ stato allestito uno spazio dedicato alla scuola, con un vecchio banco e la lavagna che riproducono fedelmente l’ambientazione di un tempo: sopra il banco sono stati posti quaderni originali, il pennino e una vecchia cartella. Alle pareti una vecchia carta geografica dell’Europa.
La stanza dei mestieri. Nell’ultima grande sala sono stati collocati gli attrezzi dei vari mestieri che integrano la Civiltà Contadina dell’Appennino, come ad esempio quelli della lavorazione della lana e della paglia, la costruzione di sedie e scarpe, la lavorazione del ferro e del legno, per terminare poi con la cantina e quanto necessario per la produzione del vino.
Il mulino. All’interno del museo è stato recentemente costruito un mulino ad acqua perfettamente funzionante in scala 1/3. Questa riproduzione è utilissima per meglio spiegare a chi visita il Museo il funzionamento di un mulino a forza idraulica, in quanto è ben visibile il meccanismo che mette in funzione la macina.
I Musei sono in evoluzione e affidati dalle amministrazioni comunali degli ultimi anni a capaci volontari Auser. Il 5 luglio 2015 è stata inaugurata la sezione del Piccolo Museo dell'emigrante con un gran numero di foto, testimonianze, oggetti e documenti sul tema. 11 pannelli ripercorrono la storia dell'emigrazione italiana dal 1875 ad oggi. Molti documenti testimoniano l'emigrazione da Monghidoro di tanti uomini e donne che abbandonano il proprio paese per sfuggire alla miseria e/o per motivi politici. Molte di queste persone sono emigrate in Belgio (Monghidoro è gemellata con Rebecq per questo), in Germania e in Francia essenzialmente.
Museo della civiltà contadina e Piccolo Museo dell'emigrante - Centro di documentazione
Il museo della Civiltà Contadina dell’Appennino si trova in località Piamaggio, a soli 3 km da Monghidoro percorrendo la strada della Futa e vicinissimo alla nostra struttura ricettiva (dopo Ca’ del Costa voltare a destra sulla provinciale per Castel dell’Alpi). Il museo è stato concepito in base agli spazi e agli oggetti a disposizione e con un criterio che coinvolga il visitatore in quella che era la vita rurale di un tempo, con i suoi luoghi di soggiorno e di attività lavorativa. Vi si possono ammirare diverse ambientazioni.
La cucina con il suo camino indispensabile per riscaldare l’ambiente e per cucinare i cibi. Il locale si trova generalmente al piano terreno e, così come nella ricostruzione, presenta la pavimentazione in lastre di arenaria tipica del luogo. Su di un lato si trova il lavello in sasso con l’immancabile secchio dell’acqua. In una madia venivano poi conservate le terraglie (piatti, terrine, bicchieri, posate, ecc.) mentre tegami, scoli, coltelli ed altri arnesi da cucina venivano appesi per essere più a portata di mano. Ogni mensola o ripiano era utilizzato per riporre gli oggetti di uso più comune. Una tavola, alcune sedie ed un attaccapanni completavano il misero arredo.
La camera da letto generalmente situata al piano superiore aveva una pavimentazione in legno con vistose fessure che favorivano il passaggio del calore proveniente dalla cucina sottostante. Il letto era costituito da due cavalletti di legno dove poggiavano alcune assi che sostenevano un materasso ripieno di foglie di mais (e paion). Per riscaldarlo si usavano le braci riposte in un apposito contenitore detto “suora”, che veniva collocato all’interno del “prete” (adeguato sostegno che teneva sollevate le lenzuola che altrimenti avrebbero potuto prendere fuoco). In un angolo era collocato il lavabo e in una cassa venivano riposti la biancheria ed i pochi indumenti di lana. Data l’alta natalità nella camera trovava spesso collocazione anche la culla per il neonato.
La stalla, con annesso portico per il ricovero degli attrezzi, è stata ricostruita fedelmente seppur in forma ridotta e rappresenta il cuore del Museo. L’ambiente odora di fieno e la mancanza degli animali, unico ausilio al faticoso lavoro nei campi, sembra quasi una casualità, anche se si possono ascoltare i loro versi. Tutto quanto esposto riconduce a quella che era l’attività preminente e che non sempre riusciva a soddisfare le necessità del nucleo famigliare e dei pochi capi di bestiame. Gli attrezzi per la lavorazione della terra e del grano si mescolano con quelli utili alla raccolta ed al trasporto del foraggio.
La scuola. E’ stato allestito uno spazio dedicato alla scuola, con un vecchio banco e la lavagna che riproducono fedelmente l’ambientazione di un tempo: sopra il banco sono stati posti quaderni originali, il pennino e una vecchia cartella. Alle pareti una vecchia carta geografica dell’Europa.
La stanza dei mestieri. Nell’ultima grande sala sono stati collocati gli attrezzi dei vari mestieri che integrano la Civiltà Contadina dell’Appennino, come ad esempio quelli della lavorazione della lana e della paglia, la costruzione di sedie e scarpe, la lavorazione del ferro e del legno, per terminare poi con la cantina e quanto necessario per la produzione del vino.
Il mulino. All’interno del museo è stato recentemente costruito un mulino ad acqua perfettamente funzionante in scala 1/3. Questa riproduzione è utilissima per meglio spiegare a chi visita il Museo il funzionamento di un mulino a forza idraulica, in quanto è ben visibile il meccanismo che mette in funzione la macina.
I Musei sono in evoluzione e affidati dalle amministrazioni comunali degli ultimi anni a capaci volontari Auser. Il 5 luglio 2015 è stata inaugurata la sezione del Piccolo Museo dell'emigrante con un gran numero di foto, testimonianze, oggetti e documenti sul tema. 11 pannelli ripercorrono la storia dell'emigrazione italiana dal 1875 ad oggi. Molti documenti testimoniano l'emigrazione da Monghidoro di tanti uomini e donne che abbandonano il proprio paese per sfuggire alla miseria e/o per motivi politici. Molte di queste persone sono emigrate in Belgio (Monghidoro è gemellata con Rebecq per questo), in Germania e in Francia essenzialmente.
L'Alpe
L’area di interesse naturalistico dell’Alpe si estende a monte della strada della Futa e a breve distanza dalla nostra struttura ricettiva. Appena lasciata la frazione di Ca’ del Costa si gira a destra su una strada in salita seguendo le indicazioni. La zona, che si trova ad un’altitudine compresa tra gli 800 ed i 1290 metri slm, è ricoperta da boschi misti di latifoglie a prevalenza di querce, da castagneti nella fascia altitudinale inferiore, da boschi a prevalenza di faggio in quella superiore. L’area è particolarmente ricca di sorgenti. Vi consigliamo di lasciare l’auto da noi e di partire a piedi per il vostro tour in mezzo alla natura lungo la rete dei sentieri ben segnalati. Sono frequenti zone di sosta attrezzate per pic-nic dove potersi riposare. Passeggiando sulle pendici di quest’area è possibile osservare un nutrito numero di specie di uccelli: la ghiandaia, la poiana, le piccole cince, il picchio, la civetta. Tra i mammiferi più facilmente osservabili vi sono lo scoiattolo, il ghiro, la lepre. Specie nelle prime ore del mattino o all’imbrunire, non è escluso l’incontro con il capriolo, il cervo, il cinghiale, la volpe. Recentemente è stato avvistato anche il lupo. Dalla sua cima (monte Oggioli – 1290 metri slm), nelle giornate più limpide, si può ammirare un vasto panorama che consente di spingere lo sguardo dal mare Adriatico alle Prealpi. Anche se i sentieri sono ben agibili usate sempre scarpe adeguate, rispettate l’ambiente e riportate a valle i rifiuti.
L’area di interesse naturalistico dell’Alpe si estende a monte della strada della Futa e a breve distanza dalla nostra struttura ricettiva. Appena lasciata la frazione di Ca’ del Costa si gira a destra su una strada in salita seguendo le indicazioni. La zona, che si trova ad un’altitudine compresa tra gli 800 ed i 1290 metri slm, è ricoperta da boschi misti di latifoglie a prevalenza di querce, da castagneti nella fascia altitudinale inferiore, da boschi a prevalenza di faggio in quella superiore. L’area è particolarmente ricca di sorgenti. Vi consigliamo di lasciare l’auto da noi e di partire a piedi per il vostro tour in mezzo alla natura lungo la rete dei sentieri ben segnalati. Sono frequenti zone di sosta attrezzate per pic-nic dove potersi riposare. Passeggiando sulle pendici di quest’area è possibile osservare un nutrito numero di specie di uccelli: la ghiandaia, la poiana, le piccole cince, il picchio, la civetta. Tra i mammiferi più facilmente osservabili vi sono lo scoiattolo, il ghiro, la lepre. Specie nelle prime ore del mattino o all’imbrunire, non è escluso l’incontro con il capriolo, il cervo, il cinghiale, la volpe. Recentemente è stato avvistato anche il lupo. Dalla sua cima (monte Oggioli – 1290 metri slm), nelle giornate più limpide, si può ammirare un vasto panorama che consente di spingere lo sguardo dal mare Adriatico alle Prealpi. Anche se i sentieri sono ben agibili usate sempre scarpe adeguate, rispettate l’ambiente e riportate a valle i rifiuti.
Osteria del Fantorno
La Storia. La testimonianza dell’esistenza di un antico edificio ubicato nelle vicinanze della località Ca’ di Fresco, verso Madonna dell’Alpe, denominato “Osteria del Fantorno” è giunta fino ai giorni nostri attraverso il ricordo tramandatosi di generazione in generazione. Dopo l’abbandono di quei luoghi, dove la raccolta della legna non era più sfruttata economicamente a causa della diminuzione della popolazione e per l’utilizzo sempre maggiore del petrolio e derivati, il ricordo era un po’ scemato. In tempi più recenti, la riscoperta del luogo dove sorgeva l’antica osteria ha rinnovato l’interesse e si sono cercate informazioni relative alle origini ed il perché dell’esistenza di quell’edificio in quel luogo, apparentemente fuori da antiche vie di comunicazione fra le città di Bologna e Firenze ed in una zona impervia ed isolata. I riferimenti portano indietro nel tempo fino al XIII secolo e le origini sono strettamente collegate con la viabilità in essere a quei tempi nella zona. E’ noto che nel primo Medio Evo esisteva già un collegamento tra Bologna e Firenze attraverso il nostro Appennino, e più precisamente sul versante sinistro del fiume Savena Detta via, che partiva dalla zona dell’attuale porta S. Stefano snodandosi in direzione sud, si accostava al fiume Savena fino a Pianoro Vecchia per poi inerpicarsi verso Brento, Monzuno, Cedrecchia, monte Bastione, Passo della Futa. Si verificarono poi, contemporaneamente, alcuni fatti che determinarono la perdita di importanza di tale percorso e si rese necessaria la realizzazione di una nuova strada altrove. Infatti agli inizi del 1200 fu istituito un importante mercato in località La Fratta, appena fuori dal paese di Loiano in direzione sud, e nel 1246 fu costruito il castello di Scaricalasino (ora Monghidoro), con conseguente istituzione della Podesteria e del Capitanato. Questi fatti, insieme all’esigenza delle persone che si recavano nei nuovi centri per interessi commerciali, fece sì che si formasse una nuova via sulla sponda destra del fiume Savena. Di questa strada, in territorio monghidorese, non rimane ora alcuna traccia ma era ancora bene identificabile immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale. Essa, uscendo dal centro abitato di Monghidoro, era diretta verso il cimitero, verso il borgo di Piamaggio ed attraversava poi il monte dell’Alpe in direzione della Toscana passando appunto ove era ubicata l’osteria del Fantorno. Dalle informazioni raccolte risulta quindi che l’osteria del Fantorno (il toponimo probabilmente deriva dal nome del gestore, il cui spirito si mormora che ancora oggi si aggiri nella zona) era situata su una strada che per diversi secoli ha collegato le città di Bologna e Firenze ed aveva la funzione di luogo di ristoro e pernottamento, insieme all’altra osteria, denominata “Osteria Bruciata”, situata in territorio toscano nei pressi della Futa, della quale sono tuttora visibili le fondamenta. E’ noto, infatti, che i passanti che si trovavano in detti luoghi sul far della sera preferivano pernottare e riprendere il cammino il giorno dopo anziché attraversare di notte ampie zone boscate, esposti al pericolo del brigantaggio. E’ da escludere quindi, come da alcuni ipotizzato, che detti locali fossero la dimora di briganti. Quanto al percorso impervio della strada, le informazioni ci dicono che in quei tempi si cercava di ridurre al massimo la distanza e poco importava se poi si ottenevano forti dislivelli in quanto i viaggiatori, oltre che a piedi, si servivano di muli e cavalli. A cavallo tra il 1800 ed il 1900 il percorso si spostò presumibilmente all’attuale Futa; la zona in cui era ubicato l’edificio non fu più soggetta al transito e, pertanto, abbandonata. Queste, sicuramente, furono le ragioni principali che segnarono la fine dell’osteria del Fantorno. Nel 2007, grazie ad un importante intervento da parte dell’Amministrazione Comunale di Monghidoro, nei pressi della vecchia struttura è stata realizzata una nuova “osteria” con lo stesso nome di un tempo. L’attuale Rifugio del Fantorno è diventato luogo di partenza per le escursioni sull’Alpe dando a tutti la possibilità di ripercorrere quei sentieri che un tempo hanno collegato il nord Europa e Bologna a Firenze e successivamente Roma.
La Storia. La testimonianza dell’esistenza di un antico edificio ubicato nelle vicinanze della località Ca’ di Fresco, verso Madonna dell’Alpe, denominato “Osteria del Fantorno” è giunta fino ai giorni nostri attraverso il ricordo tramandatosi di generazione in generazione. Dopo l’abbandono di quei luoghi, dove la raccolta della legna non era più sfruttata economicamente a causa della diminuzione della popolazione e per l’utilizzo sempre maggiore del petrolio e derivati, il ricordo era un po’ scemato. In tempi più recenti, la riscoperta del luogo dove sorgeva l’antica osteria ha rinnovato l’interesse e si sono cercate informazioni relative alle origini ed il perché dell’esistenza di quell’edificio in quel luogo, apparentemente fuori da antiche vie di comunicazione fra le città di Bologna e Firenze ed in una zona impervia ed isolata. I riferimenti portano indietro nel tempo fino al XIII secolo e le origini sono strettamente collegate con la viabilità in essere a quei tempi nella zona. E’ noto che nel primo Medio Evo esisteva già un collegamento tra Bologna e Firenze attraverso il nostro Appennino, e più precisamente sul versante sinistro del fiume Savena Detta via, che partiva dalla zona dell’attuale porta S. Stefano snodandosi in direzione sud, si accostava al fiume Savena fino a Pianoro Vecchia per poi inerpicarsi verso Brento, Monzuno, Cedrecchia, monte Bastione, Passo della Futa. Si verificarono poi, contemporaneamente, alcuni fatti che determinarono la perdita di importanza di tale percorso e si rese necessaria la realizzazione di una nuova strada altrove. Infatti agli inizi del 1200 fu istituito un importante mercato in località La Fratta, appena fuori dal paese di Loiano in direzione sud, e nel 1246 fu costruito il castello di Scaricalasino (ora Monghidoro), con conseguente istituzione della Podesteria e del Capitanato. Questi fatti, insieme all’esigenza delle persone che si recavano nei nuovi centri per interessi commerciali, fece sì che si formasse una nuova via sulla sponda destra del fiume Savena. Di questa strada, in territorio monghidorese, non rimane ora alcuna traccia ma era ancora bene identificabile immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale. Essa, uscendo dal centro abitato di Monghidoro, era diretta verso il cimitero, verso il borgo di Piamaggio ed attraversava poi il monte dell’Alpe in direzione della Toscana passando appunto ove era ubicata l’osteria del Fantorno. Dalle informazioni raccolte risulta quindi che l’osteria del Fantorno (il toponimo probabilmente deriva dal nome del gestore, il cui spirito si mormora che ancora oggi si aggiri nella zona) era situata su una strada che per diversi secoli ha collegato le città di Bologna e Firenze ed aveva la funzione di luogo di ristoro e pernottamento, insieme all’altra osteria, denominata “Osteria Bruciata”, situata in territorio toscano nei pressi della Futa, della quale sono tuttora visibili le fondamenta. E’ noto, infatti, che i passanti che si trovavano in detti luoghi sul far della sera preferivano pernottare e riprendere il cammino il giorno dopo anziché attraversare di notte ampie zone boscate, esposti al pericolo del brigantaggio. E’ da escludere quindi, come da alcuni ipotizzato, che detti locali fossero la dimora di briganti. Quanto al percorso impervio della strada, le informazioni ci dicono che in quei tempi si cercava di ridurre al massimo la distanza e poco importava se poi si ottenevano forti dislivelli in quanto i viaggiatori, oltre che a piedi, si servivano di muli e cavalli. A cavallo tra il 1800 ed il 1900 il percorso si spostò presumibilmente all’attuale Futa; la zona in cui era ubicato l’edificio non fu più soggetta al transito e, pertanto, abbandonata. Queste, sicuramente, furono le ragioni principali che segnarono la fine dell’osteria del Fantorno. Nel 2007, grazie ad un importante intervento da parte dell’Amministrazione Comunale di Monghidoro, nei pressi della vecchia struttura è stata realizzata una nuova “osteria” con lo stesso nome di un tempo. L’attuale Rifugio del Fantorno è diventato luogo di partenza per le escursioni sull’Alpe dando a tutti la possibilità di ripercorrere quei sentieri che un tempo hanno collegato il nord Europa e Bologna a Firenze e successivamente Roma.
Triton’s Park Adventure
Il Triton’s Park Adventure di Monghidoro deve il suo nome ai curiosi anfibi crestati che popolano il piccolo laghetto ai bordi del parco che offre cinque percorsi acrobatici adatti a grandi e piccini. Sette stazioni scandiscono i due Percorsi Baby, ai quali possono accedere i bambini dai 4 anni e sotto i 140 cm di altezza. Il Percorso “Bambini 1” raggiunge un’altezza massima di 1.60 mt ed è l’ideale per iniziare il gioco dell’equilibrio nel vuoto. Il Percorso “Bambini 2”, lungo 31 metri, conduce fino a 2.30 metri da terra tra tubi sospesi, ponte nepalese, passerella a tavole orizzontali e qualche trabocchetto. I bambini sono equipaggiati con imbrago a doppia sicurezza e costantemente sorvegliati dagli istruttori. I ragazzi alti più di 1.40 mt e gli adulti hanno l’opportunità di scegliere tre percorsi di difficoltà crescente. Devono però prima far tappa al Percorso pratica, per prendere confidenza con le attrezzature di sicurezza. Il Percorso Verde, medio-facile, si sviluppa in sette stazioni per un totale di 55 metri e un’altezza massima di 4.20 metri. Categoria medio-difficile per il Percorso Blu, 58 metri, impegnativo per equilibrio e coordinazione; si comincia dal ponte a tre cavi, si procede sul cavo singolo in salita, si superano i tronchi oscillanti longitudinali, il ponte a pioli a trabocchetto, fino alle altalene di corda e alla tirolese, arrivando a 7 metri da terra. I più allenati possono cimentarsi sulle otto stazioni del Percorso Rosso, che inizia da 8 metri d’altezza per salire oltre i 10 metri con liane oscillanti, passerelle in salita e in discesa, altalena e reti. La progressione è di 80 metri con una tirolese di chiusura di 50 metri. La sfida tra genitori e figli continua alla stazione di tree-climbing, per sperimentare l’arrampicata professionale tra gli alberi. Per informazioni su orari di apertura: tel. 347.8569160 o IAT Monghidoro 051.6555132.
Il Triton’s Park Adventure di Monghidoro deve il suo nome ai curiosi anfibi crestati che popolano il piccolo laghetto ai bordi del parco che offre cinque percorsi acrobatici adatti a grandi e piccini. Sette stazioni scandiscono i due Percorsi Baby, ai quali possono accedere i bambini dai 4 anni e sotto i 140 cm di altezza. Il Percorso “Bambini 1” raggiunge un’altezza massima di 1.60 mt ed è l’ideale per iniziare il gioco dell’equilibrio nel vuoto. Il Percorso “Bambini 2”, lungo 31 metri, conduce fino a 2.30 metri da terra tra tubi sospesi, ponte nepalese, passerella a tavole orizzontali e qualche trabocchetto. I bambini sono equipaggiati con imbrago a doppia sicurezza e costantemente sorvegliati dagli istruttori. I ragazzi alti più di 1.40 mt e gli adulti hanno l’opportunità di scegliere tre percorsi di difficoltà crescente. Devono però prima far tappa al Percorso pratica, per prendere confidenza con le attrezzature di sicurezza. Il Percorso Verde, medio-facile, si sviluppa in sette stazioni per un totale di 55 metri e un’altezza massima di 4.20 metri. Categoria medio-difficile per il Percorso Blu, 58 metri, impegnativo per equilibrio e coordinazione; si comincia dal ponte a tre cavi, si procede sul cavo singolo in salita, si superano i tronchi oscillanti longitudinali, il ponte a pioli a trabocchetto, fino alle altalene di corda e alla tirolese, arrivando a 7 metri da terra. I più allenati possono cimentarsi sulle otto stazioni del Percorso Rosso, che inizia da 8 metri d’altezza per salire oltre i 10 metri con liane oscillanti, passerelle in salita e in discesa, altalena e reti. La progressione è di 80 metri con una tirolese di chiusura di 50 metri. La sfida tra genitori e figli continua alla stazione di tree-climbing, per sperimentare l’arrampicata professionale tra gli alberi. Per informazioni su orari di apertura: tel. 347.8569160 o IAT Monghidoro 051.6555132.
Parco La Martina
In destra idrografica del torrente Idice, su un versante costituito prevalentemente da argille scagliose di fronte alla frazione di Campeggio, il parco La Martina si estende su una superficie di circa 155 ettari. Realizzato dalla provincia di Bologna nel 1972, è costituito in prevalenza da boschi di origine sia artificiale (rimboschimenti di conifere e latifoglie), che naturale (boschi misti di latifoglie con preponderanza di querce). La superficie del parco è poco acclive, e si trova ad un’altitudine compresa fra i 500 e i 700 metri slm. E’ attraversato da una rete di strade e sentieri segnalati che permettono di osservare i vari ambienti ed i rispettivi aspetti naturalistici. All’interno del parco è presente il rudere di una vecchia miniera di rame, nei pressi del Monte Gurlano. Un tempo quest’area era caratterizzata da prati e seminativi e da boschi radi di querce; poi, a partire dagli anni ’20, venne rimboschita con conifere quali il pino nero, il pino silvestre, l’abete bianco e il cipresso di Lawson. Tra le latifoglie è stata impiegata una quercia tipica della vegetazione naturale di queste zone: il cerro. Il parco offre l’ambiente ideale per le passeggiate e le soste all’aria aperta. E’ situato come si diceva sul versante destro dell’alta valle dell’Idice, a circa 10 km dal centro di Monghidoro e a poca distanza dal Passo della Raticosa.
La vegetazione del Parco La Martina
La vegetazione potenziale del Parco si identifica in un bosco misto di latifoglie, a prevalenza di querce come il cerro e la roverella con la presenza diffusa di altre specie arboree quali il carpino nero (Ostrya carpinifolia), l’acero opalo (Aceropalus), alcuni sorbi (Sorbus domesticus, Sorbus torminalis), l’orniello (Fraxinus ornus), ecc. Nei versanti più freschi ed umidi assieme al cerro (Quercus cerris), la quercia più comune, potrebbe insediarsi il carpino bianco (Carpinus betulus), specie che predilige i terreni umidi e profondi. Quando il suolo è molto sottile vengono privilegiate specie più pioniere come il carpino nero e l’orniello. Gli impluvi (fossi e rii) sono ambienti favorevoli all’insediamento di una vegetazione tipicamente igrofila, come salici, pioppi e il non comune ontano nero (Alnus glutinosa).
Gli animali del Parco
I roditori sono i più rappresentativi e lo scoiattolo è il più comune, ma possiamo trovare anche il ghiro, il quercino. Il riccio trova nel parco il suo ambiente ideale; non difficili da incontrare la volpe, il tasso, la faina, la donnola, la puzzola. Gli ungulati sono presenti in un discreto numero fra i quali primeggia il cinghiale che coabita con il capriolo, più raro il cervo. L’avifauna è riccamente rappresentata: la posizione geografica e l’altitudine favoriscono la presenza di numerose specie migratorie, come colombacci, tordi, fringuelli, cardellini, verdoni. Tipici e facilmente osservabili sono la cincia bigia, la cincia mora, il picchio verde e il picchio rosso maggiore, la cornacchia, il corvo, la gazza. Tra i rapaci diurni possiamo incontrare lo sparviere, la poiana e il gheppio. Tra i rapaci notturni non mancano la civetta, il barbagianni e l’allocco. Nelle zone umide troviamo il tritone alpestre.
In destra idrografica del torrente Idice, su un versante costituito prevalentemente da argille scagliose di fronte alla frazione di Campeggio, il parco La Martina si estende su una superficie di circa 155 ettari. Realizzato dalla provincia di Bologna nel 1972, è costituito in prevalenza da boschi di origine sia artificiale (rimboschimenti di conifere e latifoglie), che naturale (boschi misti di latifoglie con preponderanza di querce). La superficie del parco è poco acclive, e si trova ad un’altitudine compresa fra i 500 e i 700 metri slm. E’ attraversato da una rete di strade e sentieri segnalati che permettono di osservare i vari ambienti ed i rispettivi aspetti naturalistici. All’interno del parco è presente il rudere di una vecchia miniera di rame, nei pressi del Monte Gurlano. Un tempo quest’area era caratterizzata da prati e seminativi e da boschi radi di querce; poi, a partire dagli anni ’20, venne rimboschita con conifere quali il pino nero, il pino silvestre, l’abete bianco e il cipresso di Lawson. Tra le latifoglie è stata impiegata una quercia tipica della vegetazione naturale di queste zone: il cerro. Il parco offre l’ambiente ideale per le passeggiate e le soste all’aria aperta. E’ situato come si diceva sul versante destro dell’alta valle dell’Idice, a circa 10 km dal centro di Monghidoro e a poca distanza dal Passo della Raticosa.
La vegetazione del Parco La Martina
La vegetazione potenziale del Parco si identifica in un bosco misto di latifoglie, a prevalenza di querce come il cerro e la roverella con la presenza diffusa di altre specie arboree quali il carpino nero (Ostrya carpinifolia), l’acero opalo (Aceropalus), alcuni sorbi (Sorbus domesticus, Sorbus torminalis), l’orniello (Fraxinus ornus), ecc. Nei versanti più freschi ed umidi assieme al cerro (Quercus cerris), la quercia più comune, potrebbe insediarsi il carpino bianco (Carpinus betulus), specie che predilige i terreni umidi e profondi. Quando il suolo è molto sottile vengono privilegiate specie più pioniere come il carpino nero e l’orniello. Gli impluvi (fossi e rii) sono ambienti favorevoli all’insediamento di una vegetazione tipicamente igrofila, come salici, pioppi e il non comune ontano nero (Alnus glutinosa).
Gli animali del Parco
I roditori sono i più rappresentativi e lo scoiattolo è il più comune, ma possiamo trovare anche il ghiro, il quercino. Il riccio trova nel parco il suo ambiente ideale; non difficili da incontrare la volpe, il tasso, la faina, la donnola, la puzzola. Gli ungulati sono presenti in un discreto numero fra i quali primeggia il cinghiale che coabita con il capriolo, più raro il cervo. L’avifauna è riccamente rappresentata: la posizione geografica e l’altitudine favoriscono la presenza di numerose specie migratorie, come colombacci, tordi, fringuelli, cardellini, verdoni. Tipici e facilmente osservabili sono la cincia bigia, la cincia mora, il picchio verde e il picchio rosso maggiore, la cornacchia, il corvo, la gazza. Tra i rapaci diurni possiamo incontrare lo sparviere, la poiana e il gheppio. Tra i rapaci notturni non mancano la civetta, il barbagianni e l’allocco. Nelle zone umide troviamo il tritone alpestre.
Monumento alle “Penne Mozze”
Realizzato dallo scultore Franco Fiabane di Belluno (lo stesso che ha scolpito la Madonna delle Nevi inaugurata da Giovanni Paolo II sulla Marmolada) questo monumento è stato presentato al pubblico il 21 luglio 1996. Fortemente voluto dal Gruppo Alpini di Monghidoro è stato posizionato nei pressi della Baita sul terreno donato dall’Ing. Mariano Tarozzi. Il Cristo scolpito nella roccia segue il profilo della pietra come fosse stato crocefisso nella montagna; è rappresentato contorto e sofferente non solo nel sacrificio della redenzione ma anche in quello che ha portato gli uomini a lottare nelle asperità della montagna. A destra l’alpino con il suo fedele aiutante, il mulo, nell’atto di togliersi il cappello in segno di devozione al crocefisso.
Realizzato dallo scultore Franco Fiabane di Belluno (lo stesso che ha scolpito la Madonna delle Nevi inaugurata da Giovanni Paolo II sulla Marmolada) questo monumento è stato presentato al pubblico il 21 luglio 1996. Fortemente voluto dal Gruppo Alpini di Monghidoro è stato posizionato nei pressi della Baita sul terreno donato dall’Ing. Mariano Tarozzi. Il Cristo scolpito nella roccia segue il profilo della pietra come fosse stato crocefisso nella montagna; è rappresentato contorto e sofferente non solo nel sacrificio della redenzione ma anche in quello che ha portato gli uomini a lottare nelle asperità della montagna. A destra l’alpino con il suo fedele aiutante, il mulo, nell’atto di togliersi il cappello in segno di devozione al crocefisso.
Parco delle Rimembranze
Il Parco delle Rimembranze è una piccola ma significativa area posta all’ingresso nord del paese all’incrocio con la SP 65 della Futa e Viale Roma. Questo luogo, come dice il nome, è dedicato al ricordo e alla memoria. Un primo cippo venne inaugurato il 25 Aprile 2003 a ricordo dei militari italiani che combatterono a fianco degli alleati americani nell’ultimo conflitto bellico, sulla Linea Gotica. Il medaglione posto sul cippo opera del Prof. Luigi Enzo Mattei riporta un militare italiano che porta in braccio un soldato americano morto in combattimento. In quell’occasione il comune di Monghidoro conferì la cittadinanza onoraria al Gen. Pasquale Vitale che si distinse per l’opera di soccorso agli alleati. Successivamente il 26 marzo 2006, grazie all’apporto del Lions Club e dell’Associazione Nazionale Bersaglieri, è stato inaugurato il Parco delle Rimembranze, luogo unico in tutt’Italia, con una lapide che ricorda tutti i militari italiani caduti in missioni di pace nel mondo. In considerazione delle diverse missioni di pace in cui i nostri militari sono impegnati in varie parti del mondo l’elenco è purtroppo destinato ad allungarsi e verrà costantemente aggiornato.
Il Parco delle Rimembranze è una piccola ma significativa area posta all’ingresso nord del paese all’incrocio con la SP 65 della Futa e Viale Roma. Questo luogo, come dice il nome, è dedicato al ricordo e alla memoria. Un primo cippo venne inaugurato il 25 Aprile 2003 a ricordo dei militari italiani che combatterono a fianco degli alleati americani nell’ultimo conflitto bellico, sulla Linea Gotica. Il medaglione posto sul cippo opera del Prof. Luigi Enzo Mattei riporta un militare italiano che porta in braccio un soldato americano morto in combattimento. In quell’occasione il comune di Monghidoro conferì la cittadinanza onoraria al Gen. Pasquale Vitale che si distinse per l’opera di soccorso agli alleati. Successivamente il 26 marzo 2006, grazie all’apporto del Lions Club e dell’Associazione Nazionale Bersaglieri, è stato inaugurato il Parco delle Rimembranze, luogo unico in tutt’Italia, con una lapide che ricorda tutti i militari italiani caduti in missioni di pace nel mondo. In considerazione delle diverse missioni di pace in cui i nostri militari sono impegnati in varie parti del mondo l’elenco è purtroppo destinato ad allungarsi e verrà costantemente aggiornato.
Monumento al Capitano D’Amico
Il 25 settembre 2005 è stato inaugurato sul crinale tra il comune di Monghidoro e quello di Firenzuola (Toscana) un monumento al Capitano D’Amico, aviatore caduto in quel luogo con il suo aereo in occasione delle grandi manovre del 1934. All’epoca fu realizzato un piccolo monumento, ma i rovi e l’abbandono di quei luoghi lo nascosero alla vista dei più per tanti anni fino a quando un gruppo di volontari decise di riportarlo alla luce. Grazie alla volontà delle amministrazioni di Monghidoro e Firenzuola il monumento è stato ricostruito e l’area resa fruibile attraverso l’apporto di numerosi volontari.
Il 25 settembre 2005 è stato inaugurato sul crinale tra il comune di Monghidoro e quello di Firenzuola (Toscana) un monumento al Capitano D’Amico, aviatore caduto in quel luogo con il suo aereo in occasione delle grandi manovre del 1934. All’epoca fu realizzato un piccolo monumento, ma i rovi e l’abbandono di quei luoghi lo nascosero alla vista dei più per tanti anni fino a quando un gruppo di volontari decise di riportarlo alla luce. Grazie alla volontà delle amministrazioni di Monghidoro e Firenzuola il monumento è stato ricostruito e l’area resa fruibile attraverso l’apporto di numerosi volontari.
Monumento di Armaciotto de Ramazzotti
Il 7 ottobre 2007 al culmine di una serie di eventi realizzati nei precedenti anni per rivalutare la figura di Armaciotto de Ramazzotti ed in occasione del primo raduno in Italia delle famiglie dei Ramazzotti è stato inaugurato il monumento equestre al condottiero monghidorese. Il monumento è stato realizzato dal Prof. Luigi Enzo Mattei e posto sulla facciata principale del municipio. Un’opera unica e monumentale frutto di anni di studio dove Armaciotto viene rappresentato con il capo senza l’elmo a dimostrare l’ardimento e con la spada sguainata. Il suo cavallo è impetuoso a fare un tutt’uno con il cavaliere. Nello scudo quattrocentesco c’è lo stemma araldico di famiglia divenuto poi del Comune di Monghidoro. L’opera è posta a sbalzo sulla parete del municipio con il cielo come sfondo. Uno sfondo che costantemente cambia con il cambiare delle ore e delle condizioni meteo rendendo l’opera ancora più particolare e suggestiva.
Il 7 ottobre 2007 al culmine di una serie di eventi realizzati nei precedenti anni per rivalutare la figura di Armaciotto de Ramazzotti ed in occasione del primo raduno in Italia delle famiglie dei Ramazzotti è stato inaugurato il monumento equestre al condottiero monghidorese. Il monumento è stato realizzato dal Prof. Luigi Enzo Mattei e posto sulla facciata principale del municipio. Un’opera unica e monumentale frutto di anni di studio dove Armaciotto viene rappresentato con il capo senza l’elmo a dimostrare l’ardimento e con la spada sguainata. Il suo cavallo è impetuoso a fare un tutt’uno con il cavaliere. Nello scudo quattrocentesco c’è lo stemma araldico di famiglia divenuto poi del Comune di Monghidoro. L’opera è posta a sbalzo sulla parete del municipio con il cielo come sfondo. Uno sfondo che costantemente cambia con il cambiare delle ore e delle condizioni meteo rendendo l’opera ancora più particolare e suggestiva.